Come schiavi sui pescherecci. Tratti in salvo 300 migranti di Myanmar

Sembra una storia d’altri tempi, ma non lo è. Oltre 300 pescatori, che lavoravano come schiavi in una remota isola indonesiana, sono stati tratti in salvo dalle autorità di Jakarta dopo che la loro situazione era stata segnalata dall’agenzia stampa Associated Press. La parola «schiavi» qui va intesa alla lettera: venuti per lo più da Myanmar lavoravano su pescherecci thailandesi, di fatto prigionieri, in condizioni bestiali e senza paga. Non è una storia d’altri tempi però, perché qui si tratta di una industria moderna e molto globalizzata.

Gli uomini ora affidati alle autorità indonesiane sono per lo più cittadini di Myanmar (la Birmania), oltre che di Cambogia e Laos. Sono tra le centinaia di lavoratori migranti in Thailandia a cui procacciatori di lavoro avevano offerto ingaggi per andare a lavorare nei ristoranti. O così credevano: perché invece sono finiti su pescherecci in una remota isola dell’Indonesia, a est delle Molucche e sud di Papua occidentale: Benjina è un luogo isolato (non c’erano connessioni telefoniche fino a un mese fa, quando nel capoluogo è arrivato il primo ripetitore di telefonini). Secondo l’indagine della Associated Press, qui sono stati costretti a lavorare sui pescherecci che riforniscono aziende ittiche thailandesi che poi esportano un po’ ovunque, negli Stati uniti, in Europa, in Asia.

La via di fuga è arrivata venerdì scorso, quando una delegazione del governo indonesiano è arrivata a Benjina per verificare se corrispondesse al vero la denuncia pubblicata dalla Ap – che ha incluso nel suo reportage un video dove si vedono otto migranti chiusi in una gabbia. Gli ispettori del ministero della pesca di Jakarta hanno ascoltato una ventina di uomini, che hanno in sostanza confermato quanto aveva scritto l’agenzia stampa. Hanno raccontato di turni di lavoro di 20 o 22 ore e di un trattamento brutale. Se uno aveva sonno durante il lavoro, in mare, veniva picchiato e colpito con una sorta di taser, come un piccolo elettroshock. Molti hanno visto i compagni di lavoro morire in mare.

Molti hanno parlato con terrore di un uomo chiamato «il guardiano», un indonesiano, che aveva il compito di picchiare e torturare. Poco cibo, acqua infetta, salari bassi spesso non pagati, e nessuna via d’uscita.

Gli ispettori hanno allora offerto ai lavoratori di portarli via: temevano che sarebbero stati esposti a rappresaglia per aver parlato. Ma quando si è sparsa la voce che il gruppo partiva dall’isola, a centinaia si sono fatti avanti, persone che erano rimaste nascoste per paura: così venerdì scorso 328 uomini hanno raccolto in fretta e furia i loro fagotti e sono saliti su una nave, questa volta diretta a un altro porto indonesiano (17 ore di navigazione), dove sono ora rifocillati, curati e ospitati in attesa di rimpatrio. «Vogliamo tornare a casa», hanno poi detto alcuni di loro ai cronisti. «I nostri genitori non ci sentono da lungo tempo, forse pensano che siamo morti». Un uomo, Aung Aung, 26 anni, ha mostrato ai reporter una cicatrice frastagliata, dal labbro fino alla nuca: un colpo di machete ricevuto dal figlio del capitano per cui lavorava.

«Se gli americani e gli europei mangiano il loro pesce, dovrebbero ricordarsi di noi. Ci dev’essere una montagna di ossa nel mare», ha detto Hlaing Min, un altro dei fuggiaschi, a al Jazeera.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa 4.000 lavoratori sono impiegati nella zona. Dopo la denuncia della AP anche i governi di Thailandia e Myanmar hanno aperto indagini sulle accuse di traffico di manodopera. I pescherecci e le aziende per cui lavorano sono thailandesi. Ora, una settimana prima che arrivassero i funzionari indonesiani a salvare quel gruppo di lavoratori-schiavi, a Benjina era arrivata anche una delegazione del governo della Thailandia: ma aveva concluso che non c’erano tracce di maltrattamenti né c’erano stranieri negli equipaggi dei pescherecci (la Ap aveva documentato che a molti stranieri venivano dati falsi documenti con nomi thailandesi).

La Thailandia è il terzo più grande esportatore di pesce al mondo, e ammettere che mantiene la sua supremazia sul mercato grazie a uno sfruttamento del lavoro come quello di Benjina è imbarazzante. Ma l’offerta c’è finché c’è una domanda: la AP aveva seguito via satellite il movimento di uno di quei pescherecci-schiavi da Benjina a un porto fuori Bangkok, e ricostruito i passaggi di quel pescato verso i supermercati degli Stati uniti – Kroger, Albertsons, Safeway, Wal-Mart, e il più grande importatore nazionale, Sysco (ma altrettanto si potrebbe fare per l’Europa o i grandi paesi asiatici)

Il governo indonesiano ha annunciato una nuova visita a Benjina, per localizzare altri uomini ancora trattenuti. Il ministro per la pesca indonesiano, Susi Pudjiastuti, ha dichiarato una campagna contro la pesca illegale – un’industria devastante per il mare e per gli umani, che fa enormi guadagni senza pagare un centesimo di tasse allo stato, e profitta del lavoro di migranti tenuti come schiavi. La pesca illegale «uccide», ha commentato il ministro.

Ma i mari nell’estremo oriente dell’Indonesia sono molto difficili da controllare. E d’altra parte le aziende che pescano di frodo alimentano la domanda di prodotti ittici nei paesi ricchi: per questo la pesca illegale continua.

@fortimar