Il gas di scisto ha perso la battaglia

Il carbone non è il solo perdente, nel “Piano per l’energia pulita” annunciato lunedì dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. La cosa è stata ampiamente commentata: per la prima volta negli Usa sarà imposto un limite all’anidride carbonica emessa dalle centrali elettriche, fonte di un terzo di tutte le emissioni di gas di serra della nazione. E con i nuovi standard di emissioni, la prima prevedibile conseguenze sarà la chiusura di centinaia di centrali a carbone.

C’è un altro perdente però: lo shale gas, gas di scisto. Lo fa notare il Financial Times, che scrive di una «improvvisa inversione» nella politica della Casa Bianca: «L’anno scorso Obama indicava il gas naturale ottenuto dal fracking come il “combustibile ponte” per facilitare la transizione dall’inquinante carbone alle energie rinnovabili», osserva. Ora invece nelle sue ultime proiezioni la Casa Bianca attribuisce il ruolo maggiore all’energia solare, all’eolico e al miglioramento dell’efficienza energetica, mentre il gas di scisto cala (tra le inevitabili lamentele dei rappresentanti dell’industria dello shale).

Il declino del gas di scisto per la verità non è stato decretato oggi dall’amministrazione Obamama dal crollo del prezzo del barile di petrolio sui mercati internazionali. Guardiamo alcuni dati.

Prima però una breve spiegazione: il gas di scisto (o di formazioni argillose), così come il petrolio di scisto, è quello racchiuso in certe formazioni rocciose a grandi profondità. Per estrarlo si usa la tecnica di «sparare» in profondità getti d’acqua pressurizzata capaci di spaccare le rocce: è detta «fratturazione idraulica» (hydraulic fracturing, abbreviato in fracking).

Gli Stati uniti hanno notevoli giacimenti di petrolio e di gas naturale in formazioni di scisto, come si vede da questa mappa.

L’estrazione è costosa (a parte ogni considerazione di tipo ambientale, su cui qui sorvolo). Conviene solo se il prezzo di vendita del prodotto è alto: e nei primi anni di questo decennio il prezzo del barile di petrolio era alto, superava stabilmente i 100 dollari. Quanto al gas, i pionieri dell’estrazione negli Usa hanno deciso che valeva la pena quando i costo si aggirava su 4 dollari per Btu (Britsh thermal unit, l’unità di misura usata convenzionalmente).

Insomma: gli Usa si sono buttati nel fracking. Dal 2011 fino all’estate 2014 il numero dei pozzi scavati non ha fatto che aumentare.

La produzione petrolifera interna ha avuto un boom: da 5,6 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2010, a circa 9,3 milioni oggi (di cui quasi un terzo estratti con le nuove tecnologie “non convenzionali”). Anche il gas naturale ha avuto un’impennata, da 51,9 miliardi di piedicubi al giorno (bcfd) nel 2005 a un record di 74,4 bcfd nel 2014, una crescita del 43 per cento. I media, e i sostenitori di questa industria, hanno cominciato a parlare di “rivoluzione shale”: gli Usa dovevano diventare la prossima Arabia saudita, e storie simili.

Poi però il numero dei pozzi scavati è crollato, come si vede in questo grafico (la fonte è Baker Hughes, una grande agenzia di servizi per l’industria petrolifera).

La produzione non cresce più, anzi comincia a calare. La “rivoluzione” è già finita?

Il fatto è che un pozzo shale ha vita breve. Nel Montana o nel Dakota, nel secondo anno di attività un pozzo shale produce circa il 70% meno che nel primo; all’inizio del terzo anno oltre metà della riserva disponibile è già esaurita (lo spiega bene un articolo di Fortune dal titolo eloquente: “The shale oil revolution is in danger”).

Per mantenere il livello di produzione con il fracking quindi bisogna scavare di continuo nuovi pozzi.

Al contrario, un pozzo di petrolio “convenzionale” perde produttività tra il 2 e il 5 per cento all’anno, quindi upponendo che produca 2000 barili al giorno all’inizio, continua a produrre per vent’anni o più. Questo significa che il costo fisso (scavare il pozzo) si ammortizza su un periodo più lungo. In un pozzo convenzionale il costo variabile (il lavoro e l’energia necessari a estrarre il petrolio) oscilla tra 20 e 30 dollari a barile: anche se il prezzo di vendita del petrolio cala, perfino a 48 dollari a barile come negli ultimi mesi, l’operatore di un pozzo convenzionale continuerà comunque a estrarre: gli conviene.

L’operatore di un impianto shale invece deve continuamente decidere se gli conviene investire per scavare nuovi pozzi, e se non lo fa, la sua attività va a esaurimento molto rapido.

La soglia del pareggio per il petrolio di scisto è calcolata intorno a 65 dollari per barile: meno di così l’estrazione non conviene (si dice che un produttore molto efficente possa farcela anche a meno, perfino 50 dollari – ma per quanto tempo?). Tanto più che nel caso americano sono coinvolti per lo più operatori piccoli, che non possono permettersi di andare in perdita troppo a lungo.

Ora si può discutere se il calo del prezzo del greggio sia un complotto dell’Arabia saudita per sbaragliare la “concorrenza” dello shale americano, o altro. Sta di fatto che nessuno si azzarda a prevedere che risalga in tempi brevi.

E se la situazione è questa, sembra davvero difficile immaginare un futuro per l’impresa del fracking: affondata non tanto da Obama, ma dalla guerra dei prezzi stracciati.

@fortimar