Mezzo secolo di Iran in mostra a Roma

Rappresentare mezzo secolo di storia attraverso le arti visive è un intento ambizioso, tanto più se oggetto della mostra è l’Iran e quei cinquant’anni, dal 1960 al 2014, sono segnati da cambiamenti radicali: dallo Shah alla Rivoluzione, alla guerra, alle trasformazioni del presente. La mostra in corso a museo Maxxi di Roma però ci prova. Co-prodotta dal Musée d’art moderne de la Ville de Paris e dal Maxxi, la mostra vuole rappresentare la storia recente dell’Iran attraverso le testimonianze della cultura visuale: pittura, foto, installazioni, grafica, video e materiali d’archivio come giornali e manifesti.
“Unedited History. Iran 1960-2014”  propone materiali suddivisi in tre grandi periodi, o «sequenze del moderno», come dicono i curatori: gli anni della “modernizzazione” voluta dallo Shah (1960-’78); la Rivoluzione e la guerra Iran-Iraq (1979-’88); e la produzione culturale contemporanea (1989-2014). Il titolo gioca sul riferimento all’editing dei film: questa è storia non “editata”, frammenti scollegati. Sarà lo spettatore a fare il proprio montaggio: come a dire che non esiste un’unica storia della modernità, sono possibili diverse letture spesso contraddittorie.

Rotture e continuità. I curatori dichiarano però almeno un intento: dimostrare che la Rivoluzione del 1979, la nascita della Repubblica islamica, e la lunga guerra con l’Iraq non hanno fermato il processo della modernità in Iran, al contrario di quanto spesso si dice; casomai hanno portato in scena altri elementi. Accanto alle evidenti rotture dunque si possono vedere elementi di continuità nella produzione culturale dell’ultimo mezzo secolo – basti pensare al cinema o alla fotografia.

Quando l’Iran si pensava avanguardia del moderno. Negli anni ’60 e ’70 le arti visive erano incoraggiate in Iran, e lo testimonia la creazione del Museo d’arte contemporanea di Tehran voluto dalla sovrana, Farah Diba (tutt’ora custodisce una collezione d’arte di straordinaria ricchezza, anche se oggi in gran parte sepolta nei sotterranei). Il legame con la cultura occidentale era forte, e appare evidente in alcune opere qui esposte – tra cui, prestati dal Museo d’arte contemporanea di Tehran, alcuni dipinti di Bahman Mohasses (1931-2010), pittore, scultore e scenografo nonché traduttore di opere letterarie che aveva studiato a Roma.

Un’immagine schizofrenica. La serie (inedita) dei manifesti del Festival delle arti di Shiraz-Persepolis rappresenta il trionfo di quel cosmopolitismo. Fu un (contestatissimo) festival di teatro, musica, danza e poesia dove per undici edizioni, dal 1967 al ’77, si sono esibite le avanguardie mondiali dell’epoca – dal jazz alla danza moderna, da Max Roach a Carolyn Carson, al teatro di Jerzy Grotowski, accanto a produzioni del mondo «non allineato» dalle danze balinesi alla musica indiana. Strana operazione: con quel Festival l’Iran dello Shah voleva «sfidare la visione culturale egemonica ed eurocentrica» e proporre una «riscrittura radicale del Terzo mondo», argomenta Vali Mahlouji, uno dei curatori (in un saggio incluso nel catalogo della mostra). Perciò invitava artisti iraniani e mondiali, dava spazio alle innovazioni, proiettandosi al centro della modernità: purché naturalmente quelle voci non pretendessero di parlare di politica, per non mettere in discussione il controllo totalitario della monarchia Pahlavi sull’Iran.

Le tensioni sociali però crescevano. La mostra ne propone una sola testimonianza, ma impressionante: la serie di foto di Sahr-e No, il quartiere della prostituzione di Tehran, ritratto in bianco e nero negli anni ’70 da Kaveh Golestan (1950-2003), un maestro della fotografia. Quelle immagini di miseria e sfruttamento oggi sono l’unica testimonianza rimasta di Shahr-e No: durante la Rivoluzione la “cittadella del peccato” fu presa d’assalto, incendiata e rasa al suolo, avvio di un nuovo corso dove i comportamenti privati andavano messi sotto controllo.

La Rivoluzione del ’79 ha prodotto molto, dal punto di vista delle arti visive. Foto, ma anche i manifesti e i murales disegnati da collettivi studenteschi e artisti militanti, che dimostrano una buona conoscenza dell’arte rivoluzionaria – dal poster politico sovietico a quelli del ’68 francese, ai murales messicani. Un video di Bahman Kiarostami ripropone le prime trasmissioni della televisione di stato appena presa dai rivoluzionari. Altre foto (qui vediamo quelle di Bahman Jalali) e video (di Morteza Avini) ritraggono la guerra, i campi di battaglia, e soprattutto le condizioni di vita (e morte) dei soldati al fronte: si noterà un uso innovativo della telecamera a spalla e della voce fuori campo.

Finita la guerra, per la cultura iraniana comincia un’epoca contraddittoria. Con la ricostruzione e lo sviluppo economico lo spazio pubblico si riapre, la società civile si sviluppa: ma non è un processo lineare, apertura e ripiego si alternano seguendo le vicende politiche. Negli ultimi venticinque anni abbiamo così assistito a un grande sviluppo di cinema, letteratura, musica e delle arti visive in Iran, ma in una sorta di negoziato continuo con la censura. Ci sono artisti che hanno optato per andare all’estero, altri che sono rimasti; chi si adegua all’arte ufficiale, chi si rifugia nell’underground, chi cerca approcci indipendenti.

In ogni caso, le nuove generazioni di artisti sono cresciuti in un contesto globalizzato. A volte fin troppo, e sfornano opere che ammiccano al mercato internazionale dell’arte – i curatori della mostra parlano di un «auto-esotismo concertato tra artisti e istituzioni».
Resta una solida tradizione di fotografia documentaria: si veda qui la serie di ritratti «la famiglia iraniana», che mostra quando sia eterogenea la società iraniana odierna. O la serie fotografica di Tina Shamlou, vita quotidiana di una transex a Tehran. Ma è difficile riassumere in una mostra i diversi rivoli artistici: interni di famiglia borghese (è un elemento ricorrente nella produzione artistica di questi tempi: come una necessità di ricostruire identità private), graphic art, installazioni, disegni. La mostra qui «racconta una storia la cui scrittura è ancora oggetto di discussione», scrivono i curatori.

«Il mio Iran». Anche per questo è interessante il percorso parallelo proposto dal Dipartimento educazione del Maxxi insieme alla comunità iraniana di Roma. I partecipanti sono iraniane e iraniani diversi per età e formazione che hanno commentato la mostra a partire dalla propria esperienza personale: chi è abbastanza grande per ricordare Shahr-e No, chi ha partecipato alla rivoluzione o la conosce dai racconti dei genitori, chi ha ricordi d’infanzia di Tehran bombardata durante la guerra. È nato così un percorso di lettura a più voci, esposto in alcune didascalie accanto alle opere e raccolto in un opuscolo, Il mio Iran.

«È il primo progetto di intermediazione culturale applicato a un’esposizione temporanea», ci dice la curatrice di questo progetto, Marta Morelli, che spera di farne un format: il Maxxi pensa di ripetere l’esperienza con le mostre programmate nell’anno a venire su Istanbul e in seguito sul Libano.

Unedited History, Iran 1960-2014. Mostra ideata dal Musée d’Art moderne de la Ville de Paris a cura di Catherine David, Odile Burluraux, Morad Montazami, Narmine Sadeg e Vali Mahlouji. Al museo Maxxi, via Guido Reni 4/A, Roma. Fino al 29 marzo 2015. (da Pagina99.it – 4 gennaio 2015)

@fortimar