Protestano, dunque sono criminali? «Guerra a bassa intensità» nelle miniere

Immaginate gli abitanti di una vallata del Perù o di un altro paese andino, o anche del Guatemala o forse dell’Argentina. Pensate che nelle vicinanze ci sia una grande miniera, che inquina i fiumi o crea invasi di scarti tossici o rende impossibile coltivare la terra. Quelli cominciano a chiedere giustizia e/o risarcimenti. Magari nascono movimenti di protesta. Allora è molto probabile che qualcuno li accusi di essere nemici dello sviluppo, o peggio, criminali. «Sempre più spesso, quando popolazioni native, contadini, ambientalisti, giornalisti e altri cittadini si pronunciano contro questo modello di crescita economica, su determinati progetti e/o sul loro impatto, diventano oggetto di minacce, accuse, calunnie che tendono a presentarli come nemici dello sviluppo, minacce contro lo stato, delinquenti, criminali, terroristi. Nei casi peggiori si arriva a violenza fisica e uccisioni».

Leggo così nel rapporto diffuso la settimana scorsa da MiningWatch Canada e dal International Civil Liberties Monitoring Group, organizzazioni canadesi di monitoraggio sull’industria mineraria e sui diritti civili, che descrivono in termini molto negativi il comportamento delle compagnie minerarie canadesi nelle Americhe (In the National Interest? Criminalization of Land and Environment Defenders in the Americas ).

Il rapporto dice tra l’altro che «il modello di estrazione mineraria industriale promossa dal Canada all’estero è improntata alla deregulation e al passato e presente coloniale, … che vede le opinioni di coloro che sollevano obiezioni come una minaccia agli interessi nazionali». Gli autori del rapporto lo paragonano a «Una guerra a bassa intensità contro le comunità e organizzazioni che si battono per la giustizia ambientale in America Latina».

Il rapporto analizza i casi di Guatemala, Peru, Ecuador e Messico, esempi di come la deregolamentazione e la grande espansione dell’industria mineraria dagli anni ’90 abbia portato a «intensa criminalizzazione».

In Guatemala c’è il caso della protesta contro le miniere d’argento di Escobal, appartenenti alla canadese Tahoe Resources (canadese). Una novantina di persone sono state prese di mira per aver partecipato a proteste pubbliche e pacifiche, o per aver cercato di organizzare un referendum locale sulle miniere. Molti sono stati incarcerati per mesi, il conflitto ha potato a militarizzazione e violenza. È successo in particolare durante l’amministrazione del presidente Otto Perez Molina, ex generale dell’esercito accusato di genocidio per le azioni compiute durante il conflitto civile degli anni ’80 contro le popolazioni indigene ma ugualmente eletto capo dello stato nel 2011: di fronte a proteste contadine Molina è noto per aver detto «che torni la pace, o la imporremo noi».

In Peru, il rapporto cita numerosi conflitti legati alle miniere, e cambiamenti legislativi che hanno via via aumentato le sanzioni per chi partecipa a proteste soociali e dato impunità alla polizia, autorizzata a usare forza letale per “riportare l’ordine”. Tra il 2006 e il 2014, dice il rapporto di Mining Watch, 230 persone sono state uccise e 3,318 ferite nel corso di conflitti socio-ambientali, spesso legati a miniere. A metà dell’anno scorso circa 400 persone erano imputate e sottoposte a procedure giudiziarie per accuse di solito mosse dalle compagnie minerarie o dal loro staff, o dalle forse dell’ordine: imputazioni come ribellione, terrorismo e violenze.

Il Messico, dove le compagnie minerarie canadesi hanno investito molto (soprattutto dopo la firma del Nafta, il Trattato di libero commercio del Nord America), risulta il paese più mortale per chi protesta. I responsabili di minacce e uccisioni di rado sono perseguiti. Il rapporto parla di una «spaventosa escalation dell’uso della tortura, un rischio che corre chiunque venga incarcerato».

La criminalizzazione del leader comunitario Mariano Abarca nel 2009 in Chiapas è un caso terribile: la comunità protestava contro la concessione data anni prima alla compagnia mineraria canadese Blackfire Exploration (per una miniera che in seguito fu chiusa dalle autorità messicane perché non rispettava le regolamentazioni ambientali). Abarca era andato all’ambasciata del Canada a spiegare i motivi della protesta, aveva riferito inoltre che uomini dell’azienda (canadese) avevano minaccialo lui e gli altri attivisti. Una settimana dopo è stato ucciso. Tutti i sospetti responsabili dell’assassinio sono riconducibili alla compagnia mineraria, ma nessuno è mai stato condannato. L’ambasciata canadese non fiatò: disse che sarebbe stata un’intromissione negli affari interni messicani.

Mining Watch accusa le ambasciate, e in definitiva lo stato canadese, di chiudere tutti gli occhi su violazioni simili, dando invece sostegno attivo agli interessi delle imprese: il caso messicano, si legge, «illustra come l’idea di “diplomazia economica” del governo canadese ignora la reoresione o la violenza o vi contribuisce».

Gli esempi citati sono ancora numerosi. Secondo gli autori di questo rapporto il Canada stesso «fornisce l’esempio finale, (…) uno stato sempre più intollerante verso il crescente dissensi pubblico verso l’industria estrattiva»: una volta equiparati gli interessi dell’industria agli “interessi nazionali”, i gruppi che dissentono vengono trattati come minaccia alla sicurezza.

Mining Watch e International Civil Liberties Monitoring Group, parlano di una «guerra a bassa intensità» contro le comunità locali e gli attivisti sociali.

@fortimar