Sul fiume Narmada, in India, trent’anni di resistenza contro le grandi dighe

Il Narmada Bachao Andolan, o «Movimento per salvare il fiume Narmada», compie trent’anni. E ha segnato l’anniversario nel modo che gli è abituale: una carovana di migliaia di persone che dalla valle di Narmada, nell’India centrale, hanno raggiunto la capitale New Delhi, migliaia di chilometri più a nord. Protestavano perché gli sfollati del fiume Narmada non hanno ancora avuto risarcimenti e terra per compensare quella tolta loro dalle dighe. In quella carovana c’erano contadini poveri, braccianti senza-terra, pescatori, artigiani; per lo più adivasi (i nativi dell’India) o dalit (fuoricasta, “intoccabili”), insieme a rappresentanti di altri movimenti popolari, attivisti di sindacati rurali e gruppi politici e sociali, intellettuali e artisti.

Il movimento contro le dighe nella valle di Narmada è un esempio straordinario di resistenza popolare in India, forse l’archetipo dei movimenti popolari, di sicuro il più longevo. Ma trent’anni dopo, gli abitanti di quella valle non hanno ancora ottenuto ragione.

 

Un progetto faraonico

Il Narmada è un grande fiume. Nasce nei Ghat orientali, nello stato del Madhya Pradesh; attraversa foreste e terre fertili e coltivate attraverso gli stati di Maharashtra e Gujarat. Infine sfocia nel mare Arabico, 1.300 chilometri più a ovest. Qui negli anni ’80 è stato concepito il “Progetto di sviluppo della Valle di Narmada”. Progetto faraonico: comprende 3.200 dighe sul Narmada e i suoi affluenti, di cui una trentina di grandi dighe, per produrre energia elettrica e per alimentare sistemi di irrigazione.

La più grande in assoluto, Sardar Sarovar, ha convogliato acqua a irrigare le terre più aride a valle, nel Gujarat. Ma ha anche creato un grande lago artificiale a monte della diga (nel Madhya Pradesh), sommergendo coltivazioni e villaggi. E ha costretto circa 250mila persone a sfollare.

È proprio attorno al Sardar Sarovar che è nato il movimento di resistenza. Riprendo qui la storia dal mio La signora di Narmada:

Le prime battaglie risalgono alla metà degli anni ’80, quando il governo decise di mandare avanti il progetto del Sardar Sarovar – grazie anche al prestito di 450 milioni di dollari concesso nell’85 dalla Banca Mondiale. A quell’epoca diversi attivisti sociali indiani avevano cominciato a percorrere la valle. L’anziano Baba Amte, da buon gandhiano, aveva scelto di vivere là. Medha Patkar, allora una giovane ricercatrice in scienze sociali, stava facendo una ricerca nelle zone rurali più remote del Gujarat: fu allora che seppe del progetto Narmada. Andò in quei villaggi destinati a finire sott’acqua e trovò che pochi sapevano cosa si preparava. Nessuno era stato informato, tantomeno consultato.

Non solo: trovò che più di metà degli abitanti di quei villaggi erano adivasi, cioè tribali – si chiamano così in India le popolazioni indigene, discendenti delle popolazioni che abitavano il subcontinente in tempi remoti. Se ai tribali si aggiungono i dalit, fuoricasta (“intoccabili”), la maggioranza è schiacciante, l’80 per cento. “E’ là che ho capito finalmente che relazione c’è tra lo sviluppo di una società dei consumi urbana e lo spazio delle popolazioni tribali: è una relazione di sfruttamento”, dice Patkar. “Un avvocato stava preparando una causa legale sui risarcimenti. Io mi sono detta che il ricorso non bastava, bisognava che quei villaggi si organizzassero”.

La satyagraha sul fiume

È nato così il Narmada Bachao Andolan («Movimento per la salvezza del Narmada»), di cui Medha Patkar è divenuta in breve il volto più riconoscibile.

774225_e38d4070e6584f5e86c2a5bbc6330381.jpg_400Nel 1988, quando sono cominciati i lavori alla diga Sardar Sarovar, sono cominciati anche i gesti di satyagraha, resistenza pacifica. Interi villaggi rifiutavano di andarsene e resistevano nelle loro case sfidando l’acqua che saliva, finché la polizia li doveva portar via di forza. Oppure andavano ad accamparsi davanti alle sedi del governo, nella capitale statale Bhopal, in lunghi sit-in. Marce, carovane, manifestazioni pacifiche: spesso la polizia interveniva con manganellate e arresti di massa. Il movimento ha cominciato a far parlare di sé anche all’estero.

Quella resistenza popolare ha segnato alcune vittorie, come quando la Banca Mondiale è stata costretta a riesaminare il progetto: quando l’indagine interna ha concluso che non c’erano le condizioni per risistemare gli sfollati, nel 1991 la Banca infine ha ritirato il suo sostegno al progetto. O più tardi, quando la Corte suprema indiana ha ordinato di sospendere i lavori finché tutti gli sfollati non avessero ricevuto terra a compensare ciò che avevano perso. Ci sono stati momenti di notorietà, come quando la scrittrice Arundhati Roy ha messo la sua penna a sostegno del movimento, scrivendo un saggio che ha sfatato alcuni dei miti del «progresso» nella valle di Narmada.

La diga di Sardar Sarovar però è stata costruita – come molte altre, Maheshwar, Bargi, Maan: il movimento non è riuscito a impedirlo. E ogni diga significa nuove terre sommerse, nuovi esodi.

Solo in alcuni casi gli sfollati hanno avuto terra in cambio di quella sommersa (come ordinato dalla Corte suprema: terra contro terra, non semplici risarcimenti in denaro che non compensano le fonti di sopravvivenza perdute). Spesso però erano terre non coltivabili, o senz’acqua, o già rivendicate da altri. Molti hanno avuto quattro soldi di risarcimento, la stragrande maggioranza non ha avuto un bel nulla. Agricoltori e pescatori sono finiti in bidonvilles urbane, lavoratori a giornata. Il Narmada Bachao Andolan stima che le dighe abbiano stravolto la vita di mezzo milione di persone.

Dice Medha Patkar (cito ancora da La signora di Narmada):

Quei «rifugiati ambientali» sono l’evidenza più lampante dell’ingiustizia di tutta l’operazione. Sloggiati in nome del moderno progresso, di quel progresso hanno visto ben poco: né scuole né ospedali, strade, acqua potabile. Nella valle di Narmada, dice Medha Patkar, “terre e risorse sono state tolte agli adivasi senza consultarli e tantomeno cercare il loro consenso, senza garantire loro dei diritti e senza che arrivi loro neppure una briciola dei vantaggi creati”.

La storia collettiva dei «vinti»

Il Narmada Bachao Andolan non ha potuto impedire che sorgessero le dighe. Ma con le sue battaglie ha costruito una collettività dove c’erano singoli sfollati. Si è battuto per far riconoscere titoli di proprietà a abitanti “tribali”, prima semplicemente ignorati dalla burocrazia statale. Ha aiutato a costruire una vita comune nei resettlements, ha avviato progetti alternativi.

E non ha mai smesso di battersi: ancora in questi ultimi mesi le cronache sono costellate da villaggi che rifiutano di andarsene, satyagraha, sit in: in questo momento il Nba si batte per bloccare l’ultimo atto della costruzione del Sardar Sarovar, l’installazione delle ultime chiuse.

In questo mese di agosto 30 attivisti del movimento erano in sciopero della fame sul fiume Narmada, mentre migliaia si muovevano verso New Delhi. Dicono che la satyagraha continuerà: si richiamano alla legge sulle “acquisizioni di terre”, approvata dal passato governo: in fondo, dicono, come abitanti consuetudinari della regione sono loro i veri «proprietari» di quelle terre. (La Land Adquisition Bill è diventata un caso politico. Sancisce norme sui compensi in casi di requisizioni per opere pubbliche o private; l’attuale governo vorrebbe abrogarla, ma si è scontrato con opposizioni e proteste popolari).

Quelle dighe «non sono sviluppo, sono arroganza politica», è stato detto durante l’assemblea pubblica che ha concluso la carovana del movimento, il 24 agosto a New Delhi. Per Medha Patkar, sono «un fallimento politico».

Il Narmada Bachao Andolan in fondo non ha perso. Da trent’anni sta scrivendo un pezzo di storia collettiva di una popolazione tra le più marginali del paese. un movimento che «parla al silenzio», scriveva giorni fa sul quotidiano The Hindu un osservatore parrtecipe, Shiv Visvanathan: «serve un diverso modo di raccontare la storia: questa lotta riguarda la storia collettiva di una popolazione esclusa [gli adivasi, i senza terra], che sfida la storia ufficiale della nazione».

È questo che fa del movimento del fiume Narmada l’archetipo di tutti i movimenti per la terra e la giustizia ambientale.

@fortimar