Lo studio è stato condotto da Greenpeace con ricercatori della Harvard University, che hanno usato alcuni degli ultimi modelli atmosferici per stimare l’impatto dell’inquinamento da carbone sulla popolazione umana.
Hanno stimato che le centrali a carbone già funzionanti nel paese provocano 7.100 morti premature ogni anno per malattie cardiache e respiratorie croniche, colpi apoplettici, tumori ai polmoni, e infezioni respiratorie acute nei bambini.
Se tutte le nuove centrali a carbone proposte dal governo saranno costruite, dice o studio, si aggiungeranno 21.000 morti premature in più all’anno: nei trent’anni di vita operativa prevista, quelle centrali avranno provocato la morte di almeno 600 mila persone. (Il rapporto di Greenpeace, The Human Cost of Coal Power, si trova qui).
L’Indonesia sta vivendo una vera e propria corsa al carbone. Con 281,7 milioni di tonnellate equivalenti petrolio estratte nel 2014 è il quarto produttore di carbone al mondo dopo Cina, Stati uniti e India (è una crescita del 2% rispetto all’anno prima, e fa una quota del 7% del carbone estratto, secondostatistiche di Bp). È però il primo esportatore; rifornisce Cina, India, e numerosi altri paesi (nel 2014 ha esportato circa 360 milioni di tonnellate, su 435 milioni di tonnellate prodotte), anche se risente del rallentamento delle importazioni di Cina e India (per questo tra gli industriali indonesiani ci sono appelli a limitare la produzione).
Intanto l’estrazione del carbone ha trasformato soprattutto la provincia del Kalimantan, con gigantesche miniere operate da grandi compagnie indonesiane e soprattutto multinazionali, da Rio Tinto a BHP Billinton, alla Bumi (poi diventata Asia Resource Minerals).
L’impatto è pervasivo: sia estrarre e movimentare grandi quantità di carbone, sia bruciarlo nelle centrali elettriche provocano grande inquinamento – senza contare il prezzo pagato dalla popolazione locale, che perde le sue fonti di sopravvivenza.
Il progetto di investimenti annunciato dal presidente Widodo, criticato da Greenpeace e dalle organizzazioni ambientaliste, è invece apprezzato negli ambienti degli affari.
Infatti l’economia indonesiana sta rallentando la sua crescita, e il presidente Widodo, in carica da appena un anno (e con potenti nemici nelle élites interne), punta su un grande piano per rimodernare l’infrastruttura energetica e dei trasporti nella speranza di cementare un’immagine business-friendly, rilanciare le attività economiche, e riportare investimenti diretti stranieri nel paese. Il governo stima che servano 450 miliardi di dollari di investimenti per finanziare il suo piano (e questa è una scommessa).
Il piano include, oltre a quei 35mila MW di potenza (da aggiungere ai 53.000 MW di capacità totale installata al giugno scorso), anche la costruzione di sei raffinerie e 15 aeroporti.
È ben vero che oggi il paese è in deficit di energia, tanto che molte aziende e perfino negozi e hotel hanno i propri generatori in caso di black-out: cosa che aumenta il costo di ogni attività economica.
L’Indonesia ha bisogno di energia, non c’è dubbio. Ma ci sono alternative al carbone, obietta Greenpeace: perfino la Cina, paese carbonifero per eccellenza, sta sviluppando alcuni dei più grandi progetti di energia solare ed eolica al mondo, e sta riducendo l’uso del carbone. Negli Usa circa 200 centrali a carbone andranno presto fuori attività per obsolescenza, o perché i nuovi standard ambientali emanati dal governo le mettono fuori.
L’Indonesia va in controtendenza.