Vivere, amare, soffrire. Due pagine di Svetlana Alexievich

Svetlana  Alexievich «ha inventato un metodo di indagine e un genere letterario capaci di dare conto di come vivono, amano, soffrono, sperano e smettono di sperare l’uomo e la donna comuni nel caos della storia contemporanea», scrive Maria Nadotti. Oggi qualcuno dice che Alexievich era una scrittrice poco nota, prima che l’Accademia del Nobel le assegnasse il premio per la letteratura. In Italia però abbiamo già avuto modo di conoscere questa giornalista e scrittrice molti anni fa: e si deve in gran parte a Nadotti, che l’ha presentata e ha fatto circolare alcuni suoi scritti (da cui ho ripreso quelli che seguono).

 

Un addetto stampa dell’esercito

Comincerò dal punto in cui tutto è crollato.

Stavamo avanzando verso Jalalabad quando, in piedi sul bordo della strada, trovammo una bimbetta di circa sette anni. Aveva un braccio schiacciato, attaccato alla spalla solo per un filo, come se si trattasse di una bambola di pezza sbrindellata. Aveva occhi neri come olive e li teneva fissi su di me. Saltai giù dal veicolo per prenderla tra le braccia e portarla dalle nostre infermiere, ma lei scattò indietro terrorizzata gridando come un animaletto. Sempre gridando corse via, il braccino penzoloni che sembrava dovesse staccarsi tutto dal corpo. Le corsi dietro urlando, la presi e me la strinsi al petto, accarezzandola. Mordeva e graffiava, tutta tremante, come se l’avesse catturata un animale selvatico. Fu solo allora che il pensiero mi colpì come un fulmine: non credeva che la volessi aiutare; pensava che la volessi uccidere. Il modo in cui era corsa via, il suo modo di rabbrividire, la paura che aveva di me sono cose che non dimenticherò mai.

Ero partito per l’Afghanistan con gli occhi splendenti di idealismo. Mi era stato detto che gli afghani avevano bisogno di me, e io ci avevo creduto. Finché sono rimasto in Afghanistan non ho mai sognato la guerra, ma adesso ogni notte sogno di rincorrere quella bimbetta dagli occhi come le olive, e il suo braccino penzola come se si dovesse staccare a ogni istante.

[Da I ragazzi di Zinco, di Svetlana Alexievich (1990): questo brano in particolare è stato ripreso dalla rivista britannica Granta, che nel 1993 ne aveva pubblicati alcuni stralci, e tradotto da Maria Nadotti (il libro è stato in seguito pubblicato dalle edizioni e/o, 2003, nella traduzione dal russo di Sergio Rapetti).]

 

Una voce solitaria

«Non so di cosa parlare… della morte o dell’amore? O è lo stesso… di cosa?

Eravamo giovani sposi. Ci tenevamo ancora per mano per strada mentre ci recavamo a fare spese… (…) Nel bel mezzo della notte sentii un rumore. Guardai fuori dalla finestra. Lui mi guardò e mi disse: “Chiudi i lucernari e torna a dormire. C’è un incendio alla centrale. Sarò presto di ritorno”.

Io non ho visto l’esplosione. Niente se non le fiamme. Era tutto illuminato… Tutto il cielo… Una fiamma alta. La fuliggine. Un calore orribile. E lui che non tornava mai. La fuliggine proveniva dal bitume che bruciava. Il tetto della centrale era ricoperto di bitume. Più tardi, si sarebbe ricordato che era come se camminassero sulla pece. Spegnevano le fiamme, dondolandosi ora su un piede, ora sull’altro perché la grafite scottava… Erano usciti così come si trovavano, in maniche di camicia, senza le loro tenute da preallarme. Nessuno li aveva avvisati. Erano stati chiamati come se si trattasse di un incendio normale…

Le quattro del mattino… le cinque… le sei… (…)

Talvolta è come se sentissi ancora la sua voce… Viva… Nemmeno le foto hanno su di me lo stesso effetto della sua voce. Ma non mi chiama mai… E in sogno… sono io che lo chiamo…

Le sette… Alle sette mi avvisano che è in ospedale. Sono corsa, ma la milizia aveva già isolato l’edificio e non lasciava passare nessuno. (…)

 

“Non deve dimenticare che non è più suo marito, l’uomo amato, quello che si trova davanti a lei, ma un oggetto radioattivo con forte coefficiente di contaminazione.” (…)

 

Ci siamo sistemati sul carro funebre… I parenti e i militari. Un colonnello con la sua ricetrasmittente… gli trasmettevano: “Attendete i nostri ordini! Restate in attesa!” (…) Comunicano: “l’ingresso al cimitero non è autorizzato. Il cimitero è invaso da giornalisti stranieri. Continuate ad attendere!” I parenti restavano in silenzio… mia madre portava il fazzoletto nero… Sento che sto per perdere conoscenza. Ho cominciato a dimenarmi in preda a una crisi isterica: “Perché bisogna nascondere mio marito? È forse un assassino? Un criminale? Un bandito? Chi stiamo seppellendo?” (…) Al cimitero, dei soldati ci circondano… Camminiamo sotto scorta… E portano la bara… Non lasciano passare nessuno… Siamo soli… La tomba è immediatamente chiusa. “Presto! Presto!”, ordina l’ufficiale. (…)

Questo è il ciclo del male acuto da radiazioni: quattordici giorni… Un uomo muore dopo quattordici giorni.»

[Da Tchernobylskaia molitva, («La supplica»), Svetlana Alexievich, 1997.  Ho estratto questo brano  dall’anticipazione de Lo Straniero, estate-autunno 2000, in una traduzione dal francese di Maria Pia Falcone. Il libro è stato in seguito tradotto e pubblicato con il titolo Preghiera per Cernobyl dalle edizioni e/o (2004).]

 

@fortimar