Petrolio, inquinamento, e rivolte. Nel delta del Niger sale la tensione

La Nigeria è sull’orlo di una nuova ribellione armata? Mentre l’attenzione mondiale è puntata sulla «guerra santa» lanciata dagli islamisti di Boko Haram nel nord-est del paese, una pericolosa tensione sta crescendo migliaia di chilometri più a sud, nel delta del fiume Niger, tra gli acquitrini da cui la Nigeria estrae buona parte del suo petrolio – ma dove la povertà e un inquinamento devastante alimentano cicliche ondate di rivolta.

«Se il governo non risponde alle nostre domande prenderemo il controllo delle nostre risorse. Gestiremo noi il nostro petrolio», diceva pochi giorni fa Ebi John, ex capo di un movimento armato, a un inviato dell’agenzia Reuter – che l’ha incontrato insieme ad altri ex «generali» guerriglieri presso la piscina di un hotel di Yenagoa, capitale dello stato di Bayelsa (uno dei sei stati nigeriani produttori di petrolio). Il messaggio è chiaro, «paga i miei uomini o riprenderemo le armi».

In dicembre infatti scadrà il Programma di amnistia varato nel 2009 dall’allora presidente Jonathan Goodluck, che aveva permesso a circa 30 mila giovani ribelli ed ex guerriglieri di deporre le armi e ricevere un salario mensile. Strategia efficace, perché in effetti ha fatto calare la violenza e messo fine a una ribellione fatta di sabotaggi agli impianti petroliferi, attentati, rapimenti.

Nel momento più caldo, nel 2009, la rivolta faceva un migliaio di morti all’anno. Sabotaggi e attacchi avevano dimezzato l’estrazione di petrolio, il territorio era militarizzato (si stima che lo stato investisse quasi 19 milioni di dollari al giorno in operazioni “anti-insurrezione”). Si ricorderanno sigle come il Mend, Movimento per l’emancipazione del delta del Niger, o la Forza volontaria del popolo del delta: dicevano che la ricchezza del petrolio arricchiva le multinazionali e l’élite al potere, che loro erano in guerra per riappropriarsi delle risorse che pure erano loro.

 

Un villaggio nello stato di Bayelsa, Nigeria

Grazie all’amnistia, e a quel “sussidio” di circa 65mila naira mensili, pari a 330 dollari, molti degli ex ribelli hanno lasciato i creek, la ragnatela di corsi d’acqua, paludi e villaggi dove ribolliva la rabbia, e si sono trasferiti in città. Nel frattempo il presidente Goodluck (cristiano, e originario del delta), ha appaltato la protezione degli oleodotti a compagnie di sicurezza di proprietà di ex rivoltosi, o della milizia (ex ribelle) dell’etnia yoruba (popolazione del sud-ovest).

Certo, il programma di amnistia costa allo stato oltre 500 milioni di dollari all’anno. Però nel delta è tornata una relativa calma. L’estrazione petrolifera è tornata a livelli pre-rivolta (oggi la Nigeria produce circa 2,4 milioni di barili al giorno e ne esporta intorno a 2,1 milioni, secondo dati del Dipartimento Usa all’Energia), all’incirca come nei primi anni ‘2000.

Ora il programma di amnistia arriva a scadenza. In maggio il neoeletto presidente Muhammadu Buhari (musulmano, del nord), ha parlato di «ottimizzare» il programma, e nel delta tutti hanno capito: vuole chiudere l’amnistia. Ha già messo fine ai contratti di sicurezza con le milizie ex-ribelli, che da tre mesi non ricevono più stipendio. Il governo è sotto pressione, il crollo del prezzo del petrolio significa un drastico calo del reddito dello stato.

Così però tutti i problemi insoluti tornano in primo piano: perché nulla è cambiato nel quadro di ingiustizia, devastazione ambientale e povertà che aveva portato alla rivolta nel decennio scorso.

L’amnistia doveva essere parte di una strategia più ampia per affrontare i problemi strutturali nella regione produttrice di petrolio. Invece, un recente documento del Crisis Group fa un bilancio desolante. I due enti statali per lo sviluppo economico del delta (la Niger Delta Development Commission, creata addirittura nel 1999 alla fine della dittatura militare, e il Ministero per gli affari del delta) sono impantanati.

Altrettanto inefficaci sono le due istituzioni che devono contrastare l’inquinamento (il Hydrocarbon Pollution Restoration Project, e la National Oil Spill Detection and Response Agency): per inerzia e  anche per mancanza di risorse, visto che bonificare davvero terreni e paludi dagli sversamenti di greggio sarebbe impresa miliardaria.

Infine, la nuova legge sull’industria petrolifera (Petroleum Industry Bill), che doveva rendere più trasparente la gestione e creare un fondo per le zone produttrici, è ferma da sette anni in parlamento; ora il presidente Buhari vuole ritirarla e riscriverla.

In breve: la povertà resta diffusa, e anche la polarizzazione tra pochissimi arricchiti e la gran massa che vive miseramente. Le infrastrutture restano sub-standard. Come a Yenagoa, una capitale statale: ma un aeroporto e un nuovo ospedale, promessi, non sono mai stati costruiti.

In una regione tanto ricca di petrolio, milioni di persone mancano di luce elettrica e acqua potabile. Due terzi della popolazione del delta vivono di pesca e agricoltura di sussistenza, che però sono messe a rischio dall’inquinamento (di cui le compagnie petrolifere portano una responsabilità pesante).

 

Villaggio del Bayelsa, Nigeria

La ricchezza del petrolio vola via, ma quel poco che resta (gli «stati produttori» ricevono dallo stato centrale un 13 percento aggiuntivo del reddito petrolifero) finisce in rivoli di corruzione e malaffare. La disoccupazione giovanile è altissima. Secondo il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp), «la povertà è diventata un modo di via a causa della stagnazione economica, la mancanza di beni e servizi essenziali (elettricità, acqua corrente, sanità), l’ambiente malsano e l’insensibilità del governo».

In mancanza di una vera redistribuzione sociale, lo stipendio versato agli ex ribelli per tenerli tranquilli è il solo paradossale “welfare” della regione. Distorto: ma se questo verrà a mancare, gli ex ribelli e altri gruppi di interesse minacciano di far precipitare di nuovo il delta del Niger nella violenza. Senza contare che l’elezione del presidente Buhari alla presidenza è vista con sospetto, c’è chi parla di complotto delle genti del nord e degli yoruba per marginalizzare il sud-est (il delta).

Così ora i «generali», come amano chiamarsi gli ex leader guerriglieri, lanciano i loro messaggi al presidente Buhari. Niente più soldi? Gli uomini sono pronti a «tornare nei creek», riprendere la rivolta.

 

@fortimar